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Trieste e il suo Buffet

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by Davide Zitter
Trieste  e il suo Buffet

di Simonetta Lorigliola

Entrare nello storico locale di via Cassa di Risparmio equivale a incontrare un pezzo autentico di cultura materiale della città. E non sia detto per esagerazione: l’incontro è spontaneo e immediato poiché passa tutto da un’esperienza sensoriale unica e triestinissima. Punto primo: questo è un buffet. A Trieste si pronuncia rigorosamente la parola per intero, “t” compresa. Indica un luogo in cui, a ogni ora del giorno, puoi mangiare qualcosa di pronto, al volo, ma distante anni luce dalle tristi esperienze di fast food e al riparo dall’abusata congerie dello street food. A Trieste, c’è il buffet. Punto e a capo. E il buffet per antonomasia è da Pepi. L’ascendenza di questa tipologia di locale è asburgica, il nome francese. Due dominazioni, l’una secolare e l’altra passeggera, che hanno inciso il dna del porto adriatico. Protagonista è il maiale, in diversi tagli, tutti caratterizzati dalla medesima cottura: la caldaia. Il bollito, detto prosaicamente. Porzina (spalla), cragno (salsicce lievemente affumicate e ricche in cotenna tipiche di Kranj, Slovenia) salsiccia classica, lingua, cotechino, luganighe de Vienna (würstel)… “Il buffet storico era un luogo diffusissimo in città dove il pezzo scelto dalla caldaia veniva tagliato e servito su un pezzo carta; si mangiava in piedi o appoggiati a un banchetto, senza posate, con l’aiuto di uno stuzzicadenti, innaffiando con una birra”. Così mi racconta Paolo Polla, che in questo tempio della gastronomia triestina, ha messo piede quando aveva 16 anni e da allora non si è più mosso diventandone titolare dal 1980. Polla arriva a Trieste nei primi anni Settanta, viene dal Trentino, ospitato da alcuni parenti, per cercare lavoro: “Era normale, in quegli anni viaggiare per trovar lavoro”. I proprietari di allora erano ancora quelli storici, che poi lo cedettero a tre affezionati dipendenti tra cui Polla. È una storia tutta triestina quella che incrocia la fortuna di questo luogo. Apre nel 1897, quando Trieste era il porto più importante di un fiorente Impero. Lo fonda Giuseppe Klausič, sloveno, appellato come “Pepi s’ciavo”, un soprannome dispregiativo. Trieste purtroppo non ha mai imparato quante ricchezze potrebbero venire da una felice convivenza tra le comunità storiche che la abitano. Per fortuna negli ultimi anni molto sta cambiando, ma ancora strada da fare ce n’è. Fattostà che il primigenio Pepi s’ciavo vende a un altro sloveno, che aveva lo stesso suo nome e di cognome faceva Tomasič, sceso dalle zone del Monte nevoso, aveva lavorato in vari buffet e poi aveva acquistato questo qui nel 1908, divenendo per tutti, Pepi s’ciavo. La storia della sua famiglia attraversa il Novecento e le sue tragedie. L’ha raccontata, magistralmente, Fulvio Tomizza nel romanzo “Gli sposi di via Rossetti”. Una lettura imperdibile. Per inciso: oggi il buffet si chiama Da Pepi, ma per i triestini è sempre Pepis’ciavo, quasi tuttaunaparola, senza più valore negativo. Se è vero che ha sempre lavorato molto con gli stranieri (prima gli jugoslavi che venivano a Trieste a far spese, e oggi i turisti) è pur sempre un luogo della città, frequentato dai suoi abitanti e, forse anche per questo, rimasto autentico. Qui non è cambiato nulla da un secolo, tranne l’introduzione di piatti e posate. Il sodalizio con la birra Dreher è storico anch’esso. L’accoglienza è fatta di una speciale professionalità, di una sincera gentilezza, in cui il titolare è maestro, seguito a ruota da un competente staff che lo affianca da molti anni. Lavorano con Paolo Polla anche i figli Andrea e Anna che sovrintende alla piccola e sempre affollata sala: corre fuori e dentro dalla cucina, grattugiando il kren sui piatti con una velocità supersonica e una precisione adamantina. E allora scegli. Piatto o panino. Il mio consiglio è di orientarti sulla classica rosetta triestina, morbida e fragrante, farcita con il pezzo che preferisci: è tutto scritto sulla lavagnetta, dietro al bancone sul quale vengono estratti dai pozzetti colmi di brodo caldo i pezzi da tagliare. E su quel panino piovano abbondanti senape e kren. Addentalo, incontra la morbidezza congiunta tra pane e carne che si danno la mano, infiocchettati dell’agrodolce della senape e ringalluzziti dalla balsamicità del kren. Ascolta questa armonia di sapori: è il tocco magistrale di Pepi s’ciavo. Irripetibile e irriproducibile. Una firma d’autore. Perché questo è un autentico luogo della cucina d’autore. Lunga vita a Pepi s’ciavo.

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