Quattro chiacchiere in osteria con ANGELO FLORAMO
di Chiara Perissinotti
Mi trovo nella centrale Piazza Vittorio Emanuele di San Daniele del Friuli e sto aspettando nei gradini del Duomo di San Michele Arcangelo che il Professore, nonché scrittore Angelo Floramo, termini il suo turno di collaboratore e consulente scientifico alla Biblioteca Civica Guarneriana come fa ogni sabato pomeriggio dal 2012. Esce e mi invita ad entrare nella prima osteria che troviamo, dove tra liquidi e crostini, si racconta partendo dalla sua esperienza alla Guarneriana, un patrimonio storico straordinario donato alla comunità da Guarnerio D’Artegna dopo la sua morte avvenuta nel 1466 fatto di manoscritti, testi antichi e mappe partendo dal 1200 consultabili quasi esclusivamente in loco vista la preziosità e che negli anni, si è arricchita sempre di più grazie a numerose altre donazioni.
C: Professore che differenza c’è tra un libro e un bicchiere di vino?
A: Nessuna. Mettere mano nelle costole dei libri antichi e sulle etichette dei vini di una cantina, si percepiscono sensazioni ed emozioni simili perché entrambi, raccontano una storia, un vissuto, sono energia vivente che sprigiona i profumi dei luoghi dove hanno vissuto. Le biblioteche sono come le cantine che parlano di territorio, tradizioni, sapienza, incontri e io, sono goloso sia di libri che di tavoli di osterie.
C: Nei suoi libri e nelle sue rappresentazioni teatrali, il tema delle osterie è a lei molto caro ed è spesso presente, c’è un motivo in particolare?
A: Principalmente per un legame di parentela. La mia nonna materna che era bavarese gestiva una mescita di vino, la mamma Laura che ha ispirato il mio libro “La veglia di Ljuba” è cresciuta tra i tavoli dell’osteria dove passavano anche i Cosacchi insegnando i loro balli, papà Luciano invece, esule istriano, era un Professore di lettere come lo siamo io e le mie due sorelle. I bar e le osterie sono da sempre luoghi di aggregazione e socializzazione dove mangi, bevi e ascolti storie, un luogo verace di cultura non accademica, ma sapienza popolare che diventa trasmissione di memorie. Non ci si dava appuntamento, ma si era certi di trovare sempre qualcuno con cui scambiare due chiacchiere, bere un bicchiere e fare magari una partita a carte.
C: Oggi come sono le osterie rispetto a un tempo?
A: Nel medioevo si chiamavano Taverne con locanda ed erano punti di ristoro per gente di passaggio. Fino alla metà del Novecento erano luoghi di ritrovo per la gente del paese dove vigeva una sorta di tacito divieto alla frequentazione femminile, ubicate principalmente nelle piazze vicine alle chiese. Oggi sono dappertutto, mantengono sempre l’antico bisogno di stare insieme, ma il mestiere di oste in pochi lo sanno fare veramente: solo chi ama e conosce il proprio territorio coltivando la passione per il proprio lavoro, riesce a trasferire nel bicchiere e nel piatto suggestioni emozioni e cultura. Sa indirizzare il pubblico offrendo un vino buono, non il vino che va per la maggiore e offre prodotti a chilometro zero senza bisogno di stupire, ma per preservare la memoria. È capace di parlare o di tacere al momento opportuno come nelle “osterie manzoniane” dove ne succedevano di tutti i colori. Voci suoni rumori odori d’altri tempi di quei piccoli mondi, hanno lasciato inevitabilmente il posto a nuovi comportamenti e abitudini della modernità, non per questo però scompariranno, anzi, l’esperienza della pandemia ha fatto riaprire e ripopolare certe contrade abbandonate e la necessità di incontro con il vicino, ha fatto tornare la voglia di sedersi ad un tavolo, guardarsi in faccia, chiacchierare in tranquillità bevendo un buon bicchiere e gustando un piatto fatto dall’oste. Cose semplici come un tempo, ma con un sapore nuovo: quello della meraviglia e dello stupore nell’incontro.
C: Per concludere Professore, ci legge un estratto dal libro che ha pubblicato nel 2017 “L’Osteria dei passi perduti. Storie zingare di strade e sapori”?
A: “Poi, in un pomeriggio udinese di vagabondaggio senza meta, entro in libreria, anzi, nella Libreria per antonomasia, e comincio ad annusare copertine e pagine, come è sempre bello fare, ricavandone un piacere fisico molto simile a quello che deriva dalle esplorazioni in pasticceria: assaggi di sapori, stordimenti olfattivi, suggestioni estetiche, rapimenti estatici. Fuori piove, e indugiare tra i libri è un diletto che va assaporato, specialmente quando capita nei ricetti post-prandiali di aprile. E il pranzo si è consumato nell’osteria del cuore, dove ancora si gioca a carte, il vino è quello della casa, buono ma senza pretese, e i piatti sono assolutamente forti, nella taglia come nel gusto”.