LA TAVOLA altare della convivialità
di Carlo del Torre
“Per la mensa quotidiana in tutta semplicità è ora assai diffusa l’abitudine di mettere al posto di ogni commensale un tovagliolino di bella tela bianca o di colore, orlato da merletto appropriato, quadrato o bislungo, sul quale possono stare comodamente il piatto, i bicchieri, le posate e il pane, nonché due minuscole saliere. La tovaglia è così abolita, ma la tavola deve essere liscia, tesa e lucida come uno specchio”. Se escludiamo il riferimento alla semplicità della mensa quotidiana, queste parole paiono scritte nei nostri giorni; in realtà sono riportate dal manualetto di cucina editato a Milano nel 1938, intitolato “All’insegna del buongustaio” di Bice Visconti, nobildonna milanese dai molteplici interessi e andata in sposa al nobile friulano Marco Savorgnan di Brazzà. In pratica viene fatta descrizione di quella che noi oggi definiamo la tavola apparecchiata all’americana e che, in ossequio ad uno stile sempre più essenziale, ha ormai preso piede non solo nella mensa quotidiana e nelle trattorie, ma anche nei ristoranti di livello superiore, financo quelli stellati. Anche nelle dimore private, destinate ad essere sempre più dei dormitori e non dei luoghi dove invitare parenti ed amici in gioiosa convivialità, la frenetica vita moderna lascia poco tempo per imbandire la tavola e concede ancor meno tempo e risorse per utilizzare tovagliati od ornamenti idonei a rendere più bello e solenne un pranzo. I giovani sposi non gradiscono più, quale regalo di nozze, un servizio di piatti in porcellana o una preziosa posateria d’argento da tramandare ai nipoti, ma preferiscono un bonifico sul conto corrente da consumare subito in un effimero viaggio esotico a Papeete.
ELEGANZE FRIULANE
Il nostro Friuli però, vantava delle usanze che nulla avevano da invidiare ad altre regioni, anzi erano le altre zone d’Italia e dell’Europa che invidiavano molte produzioni locali, alcune delle quali ancor oggi resistono: famosi i tovagliati carnici, da Linussio in poi, tradizione oggi portata avanti dalla Tessitura Carnica di Villa Santina; i merletti di Gorizia che non solo impreziosivano una tovaglia, ma la rendevano sontuosa ed irripetibile; certi argentieri triestini, Janesich su tutti, che forgiavano candelabri destinati a troneggiare su tavole imperiali. Insomma vi era una tradizione fatta non solo della pur pregevole terraglia di Galvani, adatta a una dignitosa quotidianità, e le tavole, non solo si imbandivano con pietanze prelibate, ma si abbellivano e si impreziosivano secondo metodi precisi. Troviamo riportata nel ricettario di Oliva Barbetti, andata in sposa al friulano Angelo Linda e redatto alla fine del XIX secolo, la Regola d’imbandire grandi mense e che qui riporto in estratto: Gran vaso elegante di fiori nel mezzo della tavola. Quattro candelabri a branche portanti ciascuno almeno 6-8 candele. Due pasticci o croccanti in forme elevate ed a guisa di trofei. Quattro vassoi contenenti in bella disposizione dolci diversi o pasticceria minuta. Due grandi piatti con frutta fresche accomodate in bell’ordine. (…) Due vassoi con gelatine dolci. Due zuppiere all’estremità opposte della tavola contenenti la zuppa minestra da servirsi al momento. Le zuppe e le minestre a brodo devonsi porgere già scodellate servendo prima le Signore e poi gli ospiti più distinti. Lo scalco o la persona incaricata di scodellare, se è un commensale, fa collocare innanzi a sé la zuppiera, scansando un po’ a sinistra il proprio piatto senza incomodare il vicino… Non servono molti commenti a queste parole; mi auguro solo che almeno in qualche lettore si ridesti la voglia ed il piacere di trovare qualche alternativa a quella essenzialità oggi imperante, non di rado spacciata per sobria eleganza, ma che troppo spesso diventa squallore. Si riprenda la buona usanza di onorare i commensali non solo con le buone pietanze, ma anche con tovagliati, centri tavola, servizi e posaterie degni della qualità dei cibi che vengono offerti. Non dobbiamo necessariamente ritornare ai primi anni del secolo scorso, con i fasti descritti nel ricettario surriportato (anche se non sarebbe malvagio), oppure ai tempi in cui al cuoco erano richieste non solo nozioni di cucina, ma anche di architettura unite a talenti di pittore per modellare carni e ortaggi a foggia di tempio greco; tuttavia non dobbiamo dimenticare, come riporta giustamente Paul Bocuse nel suo “La nuova cucina” a metà degli anni settanta del novecento, che la tavola è un altare, eretto e parato per celebrare il culto dell’amicizia e come ogni altare che si rispetti deve trovare paramenti degni ed adeguati.