“Il RATAFIÀ no se fa in un fià”
di Carlo del Torre
Ristoranti e bottiglierie offrono una gamma di distillati e liquori sempre più ricercata e varia e le stesse distillerie si ingegnano ad immettere sul mercato delle “chicche” molto particolari, dalle grappe di monovitigno a quelle invecchiate, dagli amari e digestivi tratti da formule e ricette più o meno antiche fino ai buoni distillati di frutta, molto diffusi nella vicina Austria ed in Sudtirol, un po’ meno diffusi, ma non assenti, in Friuli, Veneto e Trentino. Nei buoni tempi andati queste particolarità venivano sapientemente prodotte dagli speziali, ossia dai farmacisti quando ancora potevano veramente esercitare la loro arte producendo direttamente le medicine e custodendo anche molti segreti per la produzione di liquori, come avvenuto, ad esempio, in Friuli, dove l’Amaro di Udine, viene ancor oggi orgogliosamente prodotto dalla famiglia Colutta. Non mancava però, una solida tradizione di produzione casalinga: non mi riferisco tanto ai distillati, di vinaccia o di frutta, che spesso e volentieri venivano realizzati con dubbia maestria, portando lavoro ai medici, per curare gli effetti del metanolo, ed agli avvocati, per affrontare gli illeciti penali conseguenti, ma alla produzione dei ratafià, ossia liquori che molti dei miei pochi lettori potrebbero sperimentare e personalizzare. Nei manuali di cucina ottocenteschi, così come nei ricettari familiari, copiose sono le ricette per conservare la frutta nel rum, nella grappa o nell’acquavite, non tanto per gustare la frutta stessa, la quale col tempo perde sia colore che sapore, ma per ottenere un liquore capace di racchiudere i profumi dell’estate. Nei ricettari manoscritti conservati a Villa Mantica Frangipane a Pavia di Udine, troviamo, infatti, la ricetta di Frutta al Rum che fedelmente riportiamo: Si mette in un vaso a smeriglio mezzo litro di rum finissimo vi si aggiunge ogni qualità di frutta rossa di primavera incominciando dalle fragole e continuando a maniera che maturano, con le ciliegie, ribes e sambuco. Ogni qual volta si mettono le frutta nel rum sì pesano prima di metterle e si mette assieme la frutta metà del loro peso di zucchero in polvere. Ripetuta l’operazione con le quattro qualità di frutta e riempito il vaso lo si chiude bene e si lascia il tutto in infusione finché i diversi sapori della frutta si siano amalgamati. Più conosciuto e diffuso è il Nocino, ossia il ratafià di noci verdi che troviamo nello stesso ricettario:
Nel mese di giugno si pongono in fusione in un litro di acquavite 8 noci se grandi e se piccole 10, ciascuna di esse tagliate in quattro pezzi e si faccia il tutto esposto al sole in vaso di vetro per 40 giorni; passato questo tempo si tolgono le noci e si aggiunge un chilogrammo di zucchero pesto per ogni litro di liquido e due o tre brocche di garofano, un pezzetto di cannella ed un po’ di vaniglia. Si rimette poi il vaso per altri 40 giorni al sole, avvertendo di mescolare il contenuto ogni giorno fino a tanto che lo zucchero sia ben liquefatto. Per ultimo si filtra per una pezzuola di tela di lino.
Perché riesca bene, le noci, ancora verdi, devono essere raccolte entro le ore sei del mattino del 24 giugno, giorno di San Giovanni Battista; raccoglierle più tardi, quando l’umidità del mattino sarà svanita, le renderebbe dure da spezzare mentre raccoglierle i giorni successivi porterebbe inevitabilmente a vedere il gheriglio ormai formato ed annerito. Semmai, con il riscaldamento globale progressivo e la precoce maturazione della frutta, sarà forse necessario, in un prossimo futuro, non attendere il 24 giugno, ma, non me ne voglia il Battista, affidarsi alle intercessioni di San Vito e raccogliere le noci al mattino del 15 giugno, quando sono un po’ meno mature. Altro metodo per non gettare nell’immondizia la Grazia di Dio è realizzare il liquore di mandarino, del quale vi riporto la ricetta tratta dal ricettario manoscritto della contessa Ida Beretta di Porcia e conservato nella Villa di Lauzacco di Pavia di Udine:
Ratafià di mandarini. Si toglie la prima scorza a 5 mandarini e si pone in infusione per 12 giorni in un vaso dal tappo smerigliato con mezzo litro di alcol finissimo, mezzo litro di acqua e grammi 500 di zucchero indi si filtra. Per conservarlo si sostituisce la scorza dei mandarini con la scorza di tre grosse arance e si trattiene una cucchiaiata di zucchero che serve alla colorazione del rosolio dopo filtrato.
Oggi i mandarini non si consumano quasi più: hanno troppi semi! Meglio le clementine che arrivano sulle tavole dal mese di settembre, magari dal Sudafrica, diluendo il profumo dell’agrume, durante tutto l’autunno e l’inverno. Mi permetto di spingere i lettori ad una prova: rinunziate, quest’anno, alle clementine ed alle arance durante l’autunno e utilizzate un mandarino primaverile, aperto a marzo, durante la Quaresima, mentre mangiate di magro e digiunate, pensando con nostalgia ai dolciumi di Natale e aspettando con impazienza quelli pasquali. Mettete poi in infusione le scorze come suggerito dalla contessa Beretta ed il profumo di quel frutto vi accompagnerà per tutta la primavera, scaldandovi il cuore.