Acqua di vita, di vite e non solo
di Silvia Marcolini
Si apre la mano, curando di mantenere una distanza fra adduttore del pollice e muscolo lombricale dell’indice. Lì, in quell’avvallamento naturale (noto per alcuni come la bocca della tigre), si versano poche gocce e le si distribuisce, strofinandole sulla pelle con il pollice opposto, per favorire l’evaporazione dell’alcool, quindi si annusa ciò che resta. Profumo di ciliegie, di pere, di uva bianca, di susine, così come di albicocche o di lampone, a seconda di quello che si è usato per ricavare quel liquido trasparente. Ecco le poche e semplici manovre offerte ad un inesperto per valutare la raffinatezza di un distillato o di una grappa in particolare, nelle parole salde di chi quella grappa la produceva come metro e misura della perfezione di un gesto, di un esercizio di acume e di una cura del dettaglio. Nelle parole di chi quella produzione l’associava, per potere, a un profumo d’alto valore, anch’esso frutto di purificazione e sublimazione, capace di inebriare non solo attraverso il gusto ma anche e soprattutto attraverso la propensione a generare evocazione e ricordo con i sensi. Alla base la qualità, della frutta innanzitutto, fresca e priva di lacerazioni per non inquinare profumi e sapore e di casa (anche quella dell’amico o del vicino andava bene se ci si accordava sulla tempistica del recupero) e in Carnia mele, pere e susine non facevano difetto. Annessa, ma non sempre concessa, la qualità dell’intuizione e della tecnica, maniacale per i produttori votati all’eccellenza e al riferimento popolare: ché c’era e c’è grappa e grappa, questo è chiaro. Gli alambicchi anche facevano la differenza, costruiti artigianalmente in rame dovevano essere buoni servitori di un fuoco che mai era casuale al di sotto: la termologia si imparava sul campo e la si praticava con devozione. Riduzione del grado, refrigerazione e filtrazione erano fasi da alchimisti, segrete e personali o dispensate a un piccolo pubblico di amici, mai concorrenti. Da raffinati era invece l’affinamento in botticelle, custodite sotto terra e attentamente scelte per dar vita a sperimentazioni dai nomi altisonanti (fatta salva la quota bevuta dal legno, la cosiddetta parte degli angeli): Questo è Armagnac, ambrato e carico di sfumature, era alla somma il vanto dichiarato, da cogliere a bicchiere inclinato in senso inverso, per evitare la prevaricazione dell’alcool. Da eletti infine l’assaggio ed il confronto, svolto anch’esso a piccolo gruppo di prescelti, con la sicurezza del consenso e dell’approvazione. Tante ne ha vissute la Carnia di storie ad alta gradazione, fin dai tempi antichi quando i frutti erano parificati al maiale: di loro non si buttava niente, nemmeno il residuo della torchiatura per ottenere il sidro, quell’impasto spugnoso e fibroso che aggiunto all’acqua veniva messo un tempo a fermentare e poi distillato. Non si sprecavano le prugne, notissime quelle di Cabia, frazione di Arta, dove l’arte si mantiene ancora salda con onore, sulla scia di un passato fatto di praticanti, alcuni noti e accreditati, troppi invisibili, in perenne lotta con le leggi di quello che un tempo era il nuovo stato in cerca di abusivi. Storie di contrabbando, di contraffazione, così come di commercio regolare, di condivisione e di semplice passione costituiscono lo strato su cui tutto si fonda. Una somma di affinità e ricorrenze di condizioni e di esercizio che ha prodotto in tutta la Carnia (ma anche altrove) un’arte basata sulla meticolosità, praticata qui da pochi uomini scelti, sparsi su un territorio ricco di frutti e di necessità d’ingegno. Paradigma di una pratica di vita, l’arte della distillazione richiede applicazione e cuore ed insegna a governare giorni, persone e cose non per aggiunta ma per sottrazione, perché quel che conta in fondo, anche nella vita di ogni giorno, è godere di un’essenza, perseguita, ricercata ed affinata.